Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Al festival Allen va a ripetizione di se stesso
Video hard e lesbiche, società opprimenti

Venerdì 7 Maggio 2021

Arrivato a metà dei suoi 80 anni, Woody Allen continua a parlarci di sé e, con leggerezza, dei suoi problemi, di un uomo sul quale gravano da tempo accuse gravi sempre respinte, che gli sono costate immagine, affetti familiari, relazioni professionali, riassunti magnificamente in quell’esilarante, sofferta e imperdibile autobiografia che è “A proposito di niente”; e di un regista che “usa” il fare film come una cura di sopravvivenza, raccontando almeno una volta all’anno i suoi amori, le sue paure, attraverso storie e personaggi, che sembrano spesso uguali nelle loro diversità, perché in fin dei conti Allen è sempre stato fedele a se stesso, con un’idea ben precisa e irrinunciabile di cinema, a cominciare da quei titoli di testa che sono già una firma, nella loro forma estetica e sonora. Certo in questo suo bisogno di marcare una “presenza” continua, a volte i film, specie in questi ultimi tempi, vengono bene bene, come “Blue Jasmine” e “La ruota delle meraviglie”, e più spesso meno bene, come quest’ultimo “Rifkin’s festival”, tra i meno ispirati e più senili, adagiato blandamente su una specie di riassunto generale della sua percezione del mondo. E del suo cinema, ovviamente. Siamo nella bellissima città basca di San Sebastián. Qui arriva, in pieno festival cinematografico (tra i più importanti in Europa), Mort Rifkin (Wallace Shawn, puntualmente alter ego di Allen), ex professore di cinema, in problematica attesa di dare alla luce il proprio romanzo della vita. Accompagna la moglie Sue (Gina Gershon), press agent, in fregola per il giovane, seducente e vanitoso regista Philippe (Louis Garrel). Rifkin, che non solo detesta l’ambiente ma deve controllare i movimenti della consorte, accumula mille problemi fisici anche come scusa per ricorrere alle cure della dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya), di fatto immaginando di pareggiare le scorribande della moglie. La lontananza da New York poi fa il resto: insomma Allen si mette ancora una volta davanti a uno specchio. Su questo esile canovaccio, che inizialmente strappa qualche sorriso ma alla lunga mostra un fiato corto, e con la consueta, straripante tavolozza di colori saturati di Storaro (qui al quarto film insieme), Allen irrompe con una specie di bignami riassuntivo del suo afflato cinefilo, con inserti in bianco e nero, dove finisce dentro i film della sua vita, come nel rovescio puntuale di “La rosa purpurea del Cairo”. Sfilano Bergman, Fellini, Truffaut, Godard, Buñuel, Lelouch (i titoli sono facilmente intuibili, quasi “banali”), dove solo la Morte di Christoph Waltz (“Il settimo sigillo”) comporta davvero un esilarante colpo di genio, grazie anche all’attore, che paradossalmente insegna come ritardare il suo incontro fatale. E, ovviamente, Allen si aggiudica un’opzione singolare: fare film. Voto: 5.

DUE - Due donne mature si amano segretamente da anni. Abitano nello stesso pianerottolo, una di fronte all’altra e tutti, familiari compresi, le credono amiche. Nina è più estroversa, conosce di più il mondo, Madeleine è vedova, ha due figli, una vita per la famiglia. Nina spinge Madeleine perché faccia finalmente coming out, ma non trova mai il coraggio, finché un dramma non sconvolge la quotidianità di entrambe. L'esordio del padovano Filippo Meneghetti, ormai di casa in Francia, tocca con sensibilità, la voglia e al tempo stesso l'incapacità di offrirsi ai parenti, al mondo come se stesse e non con una immagine falsa, in un'età ormai avanzata quando non ci sarebbe più niente da nascondere, ma le resistenze invece non crollano. Brave le attrici Barbara Sukowa e Martine Chevallier. In Francia gli hanno fatto fare il film e lo hanno mandato pure in gara per gli Oscar, in Italia forse non glielo avrebbero fatto fare. Almeno così. Voto: 7.

SESSO SFORTUNATO, ROMANIA GROTTESCA - Un’insegnante, in piena era pandemica, registra una scena hard con il suo partner, ma il filmino finisce in rete. Il consiglio dell’istituto e l’assemblea dei genitori processano il caso, chiedendo l’espulsione della prof. Radu Jude si diverte ancora una volta a far crollare l’immagine morale e politica di una Nazione, la cui storia viene qui riassunta nel secondo capitolo come un almanacco graffiante in stile blob. Il primo capitolo gioca sulla lateralità del caso, inserendo l’insegnante ansiosamente nelle strade di Bucarest, costantemente al cellulare, mentre attorno la città mostra la sua faccia più isterica. L’ultima frazione è dedicata al “processo”, una sit-com grottesca dove il regista si diverte anche a mostrare conclusioni diverse, sfogando la sua ironia iconoclasta, come nell’ultimo alternativo finale. Con “Sesso sfortunato o follie porno” Radu Jude si conferma uno dei più teorici e sarcastici registi del cinema rumeno: la contrapposizione privato/pubblico assume aspetti feroci, mostrando come possa essere più triviale chi accusa di chi compie il gesto (qual è la Romania più pornografica?) e il “processo” è in nuce la rappresentazione di un Paese incapace di ragionare e dialogare. Orso d’oro a Berlino. Voto: 7.

 

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