Per effetto dell'ennesimo rinvio, è slittata al 30 novembre la scadenza per il pagamento del payback sanitario, un onere che Confindustria chiede di cancellare del tutto. Il conto a Nordest sfiora i 360 milioni: soldi che i fornitori di dispositivi medici devono restituire in forza del decreto statale che prescrive loro di accollarsi fra il 40% e il 50% dello sforamento della spesa sostenuta dalle Regioni, fra il 2015 e il 2018, per l'acquisto di bisturi, garze, pacemaker e tutto il resto della merce. Un termine commerciale in cui non possono però rientrare le cornee donate dai familiari dei defunti, come ha stabilito il Tar del Friuli Venezia Giulia, accogliendo il ricorso della Fondazione Banca degli Occhi del Veneto, che si era vista intimare la riconsegna di 6.139,83 euro.
LA BATTAGLIA
La cifra è indubbiamente modesta, rispetto ai 9,8 milioni chiesti all'azienda Johnson&Johnson Medical, che guida la classifica degli importi.
Al di là dei soldi, evidentemente, era una battaglia di principio: l'organizzazione presieduta da Giuseppe Di Falco ha infatti rimarcato la circostanza di operare «nella distribuzione di tessuti umani», di svolgere «un'attività senza fini di lucro» e di essere «ristorata unicamente attraverso il riconoscimento di rimborsi spese». Argomentazioni a cui l'istituzione regionale ha replicato sostenendo l'infondatezza nel merito, oltre che l'incompetenza territoriale di Trieste rispetto a Roma.
L'ANNULLAMENTO
Ma il Tribunale del Friuli Venezia Giulia, rivendicando la propria giurisdizione, ha disposto l'annullamento del decreto regionale che un anno fa aveva quantificato il debito da saldare. I giudici hanno infatti ricordato che, in base al regolamento europeo del 2017, è considerato dispositivo medico «qualunque strumento, apparecchio, apparecchiatura, software, impianto, reagente, materiale o altro articolo, destinato dal fabbricante a essere impiegato sull'uomo». La conseguenza è inequivocabile, secondo i giudici: «All'interno tale definizione, che presuppone un'attività di "fabbricazione" e quindi un complesso di operazioni destinate alla creazione di un prodotto, non possono rientrare i tessuti, che sono parti del corpo umano oggetto di mero prelievo da donatore vivente o deceduto». Del resto «l'estraneità dell'ipotesi in esame all'istituto del payback» è dimostrata anche dalla lettura della normativa italiana che regola l'utilizzo dei tessuti umani, «vietandone in modo assoluto ogni forma di sfruttamento a fini commerciali e di lucro».
Dunque la Fondazione, che è centro di riferimento regionale per i trapianti di cornea del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, non dovrà restituire alcunché: «Un meccanismo di compartecipazione al ripiano delle eccedenze di spesa pubblica non può coinvolgere soggetti che (...) esercitano un'attività non orientata al profitto, quali le banche dei tessuti. Queste sono, infatti, enti no-profit che svolgono, a favore dei centri di trapianto, un'attività di controllo, conservazione e distribuzione dei tessuti prelevati, ricevendo dal sistema sanitario un mero rimborso dei costi, secondo tariffe definite dalla Regione». Dovrà essere anzi quest'ultima a rifondere alla Onlus 3.000 euro di spese del giudizio, sempre che non voglia appellarsi al Consiglio di Stato.