Il caso dello sherpa pakistano lasciato morire sul K2: la storia dell'alpinismo non è così nobile come ci piace pensare

Venerdì 18 Agosto 2023

Caro direttore,
in questo caldo agosto 2023 una tale Kristin Harila, alpinista norvegese, ha lasciato morire sul K2 un povero sherpa pakistano, di nome Mohammad Hassan, caduto da uno strapiombo e rimasto penzoloni a testa in giù, scavalcandolo assieme al suo team, perchè la sosta avrebbe compromesso il raggiungimento del record che l'alpinista stava tentando di battere: scalare tutti i 14 ottomila nel minor tempo possibile. Record battuto, sherpa morto e medaglia d'oro di vigliacca arroganza aggiudicata con pieno merito. Se poi s'aggiungono le dichiarazioni della protagonista: "non ero là" diventato, grazie ad un filmato inequivocabile, un "abbiamo fatto tutto il possibile per salvarlo", smentite subito dall'alpinista austriaco Wilhelm Steindl che era proprio lì quel giorno, siamo davvero in un Barnum dello squallore che nulla ha a che fare coi monti e con chi li frequenta con umiltà e rispetto. Sentimenti del tutto assenti in questa tragica, sciagurata vicenda che ci fa davvero male perchè è un tradimento totale di tutto ciò che da sempre ha significato andar per cime. Mai si negava l'aiuto a chi era in difficoltà, mai la sfida colla roccia era caccia al record.


Vittore Trabucco
Treviso


Caro lettore,
purtroppo la storia dell'alpinismo, soprattutto quello himalayano, non è così nobile e priva di ombre come ci piace pensare e raccontare.

E per dimostrarlo basterebbe ricordare ciò che proprio sul K2 accadde nel 1954 durante la spedizione italiana guidata da Ardito Desio e la lunga polemica che ha opposto il Club alpino italiano a Walter Bonatti, "abbandonato" a 8.100 metri dai compagni di spedizione e costretto a trascorrere un'intera notte a -40 con il portatore Madhi. E non è neppure vero che la caccia al record sia estranea all'alpinismo. La lotta con l'alpe, come si diceva un tempo, si è da sempre nutrita di grandi rivalità, di confronti al limite delle umane capacità per imporre il sigillo della propria abilità e della propria tenacia su una parete o su una montagna. Aprire una via prima di altri, salire una cima fino a quel momento inviolata, "conquistare" un'ottomila senza l'ausilio di ossigeno e di altri strumenti artificiali o farlo più rapidamente di quanto avvenuto fino a quel momento, sono sfide e ricerche di primato (cioè di record) che hanno contraddistinto le varie stagioni dell'alpinismo e ne hanno accompagnato l'evoluzione, non raramente con il corredo di furiose polemiche e ruvidi scontri personali. Ma il punto è un altro: la tragica e vergognosa vicenda di Kristin Arila, con tutto questo non c'entra nulla. "Non è alpinismo", come ha scritto giustamente un grande uomo e un grande alpinista come Agostino Da Polenza, che al K2 ha legato una lunga parte della sua vita dopo averlo salito nel 1983 in stile alpino la difficile parete Nord. Ma nel caso di Kristin Arila la montagna, anche "quella" montagna, la seconda più alta della terra, era solo il palcoscenico di un'esibizione spregiudicata e crudele. Una sfida mediatica dietro la quale c'era certamente un'eccezionale preparazione fisico-sportiva e una straordinaria organizzazione, ma a cui erano estranei tutti quei valori (innanzitutto il rispetto: degli altri, della vita umana e della natura) che sono e sono stati alla base dell'alpinismo, pur con tutte le sue contraddizioni e polemiche. Bonatti ha scritto: "Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che cumuli di sassi e ghiaccio". Evidentemente Kristin Arila non ha mai letto Bonatti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci