Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Super Favino, no Amelio - Loach battaglia
da non perdere è "La ragazza d'autunno"

Venerdì 10 Gennaio 2020

Il 17 febbraio 1992 è una delle date più importanti della Repubblica Italiana, forse la più traumatica e devastatrice: l’arresto di Mario Chiesa sancì l’inizio di “Mani pulite”, altrimenti detta “Tangentopoli”, che di fatto, in breve tempo, fece crollare tutta l’architettura politica del Paese, concludendo in modo sconvolgente la fase chiamata Prima Repubblica. Nel corso delle indagini Bettino Craxi vide distruggersi il suo potere e fu costretto, per evitare l’arresto, a fuggire in Tunisia, ad Hammamet, latitanza dalla quale non fece più ritorno, nemmeno dopo la sua morte. Da quei giorni fino a oggi è sempre ampio il dibattito sulla sua figura, che va, per alcuni, dal mascalzone senza necessità di revisioni di pensiero, a quella, per altri, dell’uomo perseguitato.
Gianni Amelio, anche sceneggiatore assieme a Alberto Taraglio, compone un quadro che sceglie l’ambiguità come fonte di rappresentazione e non solo per il mimetismo estremo con il quale lo straordinario Pierfrancesco Favino si identifica con Craxi (facendo di fatto sparire tutto il resto del cast, in alcuni casi davvero in difficoltà) e al tempo stesso per la negazione totale di ogni preciso riferimento personale (Craxi non è mai nominato, se non come il “Presidente”, la figlia diventa garibaldinamente Anita, il personaggio di Fausto è inventato, il contesto generale è sfuggente). Si tratta di una scelta coerente, ma al tempo stesso rischiosa, volendo anche indagare sugli aspetti più intimi e personali dell’uomo politico, costretto all’esilio (il film è girato nella vera casa dove dimorò l’esponente del Psi). Amelio non è Bellocchio, che entra nella storia politica italiana e la rilegge nei suoi scossoni realistici impastandoli con il proprio sguardo, con illuminazioni oniriche (si veda il finale di “Buongiorno, notte” e lo si paragoni purtroppo con questo, con quel gusto felliniano azzardato); e nemmeno Sorrentino, che irrompe nella vita di Andreotti e Berlusconi e impone la sua presenza, con il proprio egocentrismo e quel senso dissacrante di tutto; e di certo non Moretti del suo Caimano.
Amelio si limita a osservare. Rimane esterno. Scruta il potente nel suo essere ormai fantasma, cerca una lettura universale, ma il simbolismo a volte nuoce (la fionda, il vetro infranto, la pasta divisa), i riferimenti cinematografici stonano, e stavolta il suo “colpire al cuore” (di cui arrivano gli echi) a tratti sbaglia bersaglio. Peccato, perché qua e là è l’Amelio più convincente da “Il primo uomo” a oggi, dove l’arroganza del Potere è forte anche sulla soglia della morte, ma manca una forte lettura di quell’Italia (e di conseguenza di quella attuale), perché l’indeterminatezza di ogni dettaglio toglie quella forza che “Hammamet” avrebbe dovuto avere. Resta la meravigliosa prova attoriale di Favino, ormai l’attore italiano più coinvolgente e “internazionale” (capace negli ultimi tempi di descrivere al meglio due potenti sull’orlo della caduta e della morte – Buscetta e Craxi, mutatis mutandis, hanno diverse analogie), ma la parentesi delle Gerini è davvero brutta (specie la sequenza in hotel) e tutto il finale (la passeggiata sul Duomo, dove appare per l’ultima volta Omero Antonutti, lo squarcio felliniano e l’ultimo incontro con Fausto che consegna la cassetta) è piuttosto stonato. Voto: 6.


(FILM DELLA CRITICA)
LENIGRANDO, DUE DONNE, UN GRANDE GIOVANE REGISTA
- Di Kantemir Balagov, giovane regista russo (non ancora 30enne), formatosi alla scuola del grande Sokurov sentiremo parlare a lungo. Ha già diretto due film, entrambi passati a Cannes, lasciando sempre la sensazione di trovarsi di fronte a tanto talento, così sorprendentemente maturo. E così dopo la folgorante opera d’esordio, “Tesnota”, Balagov torna ora a sbalordire con questo “La ragazza d’autunno”.
Siamo nella Leningrado devastata dall’assedio, alla fine della II Guerra Mondiale, Iya un’infermiera slanciata (la giraffa del titolo internazionale “Beanpole”) non riesce sempre a controllare le proprie azioni, anche per un blocco intermittente e temporaneo post traumatico: le viene affidato in custodia un bambino, che lei fa accidentalmente morire (la scena più atroce del film); la madre di questo bambino, l’amica Masha, tornata dal fronte, la obbliga ad averne un altro per lei, visto che è rimasta sterile. Balagov squarcia la staticità del racconto, quasi tutto racchiuso in interni, di ospedali e di case, costruendo un paesaggio di fantasmi, i cui corpi sono martoriati dal dolore. Se si accende l’ipotesi di un precoce manierismo, è la forza della storia e dell’immagine a lasciare il segno, tra scatti vendicativi e bisogno d’amore. Voto: 7,5.


LOACH E LA SOCIETÀ CONTEMPORANEA: UN FILM PIÙ INDISPENSABILE CHE BELLO
- A Ken Loach dovremmo essere sempre grati. È uno degli ultimi registi attento alle dinamiche socio-politiche con uno sguardo empatico nei confronti degli ultimi, degli indifesi, degli umiliati da una società incapace di offrire garanzie e solidarietà, lavoro e dignità, una corretta distribuzione della ricchezza e un sentimento di umanità verso chi ha più bisogno. Il comunista Loach sta sempre sulle barricate, pronto a lottare con il suo cinema, forte e pulsante, non senza qualche tocco ironico, ma anche non privo di un’indole manichea, che vede spesso il mondo diviso in modo netto tra buoni e cattivi, quasi sempre senza zone grigie.
“Sorry we missed you”, presentato a maggio a Cannes che gli vuole davvero bene (Loach ha già vinto due Palme d’oro e nemmeno con i suoi titoli migliori…), racconta infatti di una famiglia del proletariato, dove il padre Ricky Turner (Kris Hitchen) accetta di fare consegne a domicilio dai ritmi disumani, senza alcuna copertura e impossibilitato perfino ad ammalarsi; la moglie accudisce, come infermiera, persone in difficoltà, mentre il figlio vive un’adolescenza ribelle. I guai non si arrestano, anzi continuano a destabilizzare la quiete domestica, portando la situazione a uno stress drammatico e costringendo il padre ad accettare imposizioni inaccettabili, pur di non perdere il lavoro.
Loach tiene un’attenzione lucida verso la società contemporanea nei suoi dettagli più subdoli, dove praticamente si rischia di pagare di tasca propria il lavoro che si ottiene, in una specie di cortocircuito economico, nel quale non si ha a disposizione alcun supporto da parte dell’azienda. È il mercato del lavoro odierno, atroce e crudele. Cosa funziona allora meno? Nel suo cinema a tesi, Loach corre sempre più il rischio di non trovare una dialettica interna alle sue storie (scritte come al solito con il fedele Paul Laverty), evidenziando sempre più l’accanimento di una società insensibile. Ma se nel precedente “Io, Daniel Blake” (Palma d’oro 2016) la burocrazia ossessiva portava l’individuo a confrontarsi con ostacoli a volte grottescamente insormontabili, qui molto della narrazione segue i fili di un percorso volutamente impietoso (i buoni sono ovviamente buonissimi, i cattivi altrettanto cattivissimi), chiamando in causa anche il Caso, anch’esso sulla soglia di colpire il povero individuo (c’è una scena nel finale con la più piccola della famiglia in cui si teme il peggio), che probabilmente alla fine danneggia in qualche modo il film stesso. Ma il suo cinema resta comunque un punto fermo di lotta e in tempi come questi, molto confusi e dove ognuno tende a pensare per sé, è quindi bene che ci sia ancora chi ci pone dei problemi seri in modo schietto e diretto. Un cinema insomma che resta importante e politicamente sacrosanto. Voto: 6.
  Ultimo aggiornamento: 14:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA