Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Né Star Wars, né il Pinocchio di Garrone,
il film che infiamma è della Sciamma

Venerdì 20 Dicembre 2019
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Non era certo facile trovare il modo più accattivante per chiudere l’ultima trilogia di una saga infinita, che ci accompagna dal 1977, anno di uscita del primo episodio (“Una nuova speranza”, in realtà successivamente il quarto), in cui ribaltamenti di campo, identità rovesciate, duelli all’ultimo laser e ovviamente battaglie scoppiettanti nei cieli invasi da flotte planetarie hanno confuso uno scacchiere via via sempre più complesso, ma anche nel tempo sempre più logoro.
Certo “L’ascesa di Skywalker”, nona puntata (senza contare spin-off, serie animate e quant’altro), che ha rivisto tornare al timone J.J.Abrams (già regista del numero 7) lascia troppo frastuono e molte perplessità, non avendo ovviamente né la freschezza dell’epilogo della prima trilogia (“Il ritorno dello Jedi”, 1983), né l’impressionante architettura da tragedia scespiriana della chiusura della seconda (“La vendetta dei Sith”, 2005), che di fatto andava a chiarire tutto quello che noi sapevamo già, soprattutto con lo sconfinamento dal Bene al Male di Anakin, diventato Darth Vader.
In effetti è abbastanza curioso che dopo essersi inventati una terza trilogia e dovendo per forza, a un certo punto, tentare di chiudere il discorso sui personaggi e le loro traiettorie, la puntata finale abbia quasi richiesto l’intervento dei vecchi interpreti, riesumando veri o falsi morti come fantasmi: allora ecco riapparire Palpatine, già annunciato da tempo nel trailer con la sua inconfondibile risatina, ma anche Han Solo, in un colloquio piuttosto moscio con il figlio Ben/Kylo Ren, che lo ha ucciso nell’episodio 7, senza parlare della principessa Leia, che di fatto è quella che attraversa tutta la storia (anche quando la sua attrice, Carrie Fischer, è morta invece sul serio).
Ciò che manca alla terza trilogia, soprattutto al suo finale, è un’autentica epicità, una rappresentazione di personaggi che gravitino in un universo drammatico (e anche spavaldamente ironico), lasciando un’immagine forte e strutturata, un percorso narrativo che sviluppa pensieri, lotte e contraddizioni: si pensi al debole tormento che accompagna sempre i ribaltamenti di campo di Kylo Ren, l’ultimo davvero insostenibile, con quel richiamo un po’ banale alla mamma. Ma c’è dell’altro. Abbiamo atteso questo epilogo per conoscere finalmente la discendenza di Rey, la figura che tutti i Jedi reclamano come Salvatrice: la realtà viene bruciata in pochi secondi, spiegata in modo sbrigativo e forse deludendo anche qualsiasi interazione familiare con Kylo (ma questo sarebbe il problema minore).
Certo ci sono aspetti ancora interessanti: dallo spirito rivoluzionario finale, a quell’istinto umanista che accompagna non solo l’ultima battaglia, ma anche il pensiero di un futuro di pace e democrazia; da quello sconfinamento dark nella caverna di Palpatine, che perde tuttavia efficacia nella sua scenograficamente frivola eliminazione a quella ribellione alle proprie identità, alla lotta che comporta il non riconoscersi in quello che si è per nascita e destino, dove le figure dominanti spesso stanno in bilico, tra passaggi di frontiera esistenziali.
La stanchezza non si poteva non sentire, dopo tutti questi anni e tutte queste puntate. Tuttavia se l’episodio 8 di Rian Johnson (“Gli ultimi Jedi”) aveva acceso barlumi di interesse e soprattutto una spettacolarità stupefacente (si ricordi almeno la splendida battaglia finale nel deserto di sale bianco e rosso), qui la sensazione è che i numerosi, chiassosi scontri nello spazio siano stati un’occasione più da caciara che di ingegnosità bellica, parentesi ripetitivamente vibranti dentro una narrazione carente, per allungare insomma il brodo.
La chiusura cede un po’ allo smarrimento e alla nostalgia per quell’impressionante universo iniziale creato da George Lucas, per quella celeberrima partitura di John Williams. Oggi appare tutto più affaticato e fragile: forse anche la Forza ha perso il gusto di farci credere che tutto sia solo un balocco. Perché oggi, nonostante una nuova Skywalker, sembra davvero solo questo. Voto: 6.


PINOCCHIO NON APPASSIONA - L’ostinazione con la quale Matteo Garrone rincorre il “fantastico” meriterebbe risultati migliori, perché è come se ogni volta il regista romano non sapesse liberarsi del tutto di ogni ingombro realistico, come è infatti avvenuto, pur nella sua bellezza discontinua, ai tempi di “Il racconto dei racconti” e come conferma, purtroppo, questo “Pinocchio”, rincorso per tanto tempo, ma affetto dai medesimi problemi. Garrone non ha la felicità di sguardo di un Tim Burton o di Guillermo del Toro, per capirci, ma questo non sarebbe un male: e infatti nella trasposizione da Basile lo sforzo regge, specie in alcuni episodi, forse in mancanza di una collettiva “memoria” fervida del racconto, mentre dal romanzo favolistico di Collodi, già di per sé un bell’azzardo e storicamente bersaglio fallimentare al cinema, esce una trasposizione che si accontenta di elencare le varie tappe della “formazione” umana del burattino, in una sorta di riassunto didascalico, che appiattisce ogni istinto di “interpretazione” più originale (esistenziale o anche socio-politica, pur in un'indole borghese meno marcata), ma senza riuscire a temprare in modo originale le vicissitudini di un pezzo di legno che desidera farsi uomo, tanto è conosciuta la storia.
Così la sfilza di personaggi, che non staremo inutilmente a elencare (su tutti forse la “Volpe” di Massimo Ceccherini, coautore della sceneggiatura assieme allo stesso regista), accompagna un percorso che farà forse fatica a sorprendere i bambini di oggi, abituati a ben altri stimoli, e deluderà chi si aspetta qualcosa di più di una rappresentazione a tratti anche sontuosa, che si appoggia a una fotografia macchiaiola, a un’abbondanza di fastosi costumi, e a una messa in scena che ristabilisce un’atmosfera d’antan appropriata. Poi è chiaro: l’emozione scatta soprattutto quando Garrone dà il meglio di sé e cioè quando rimette a pulsare il suo cuore dark, con quelle atmosfere cupe, sinistre e misteriose, come l’impatto nella casa fantasmatica della Fata turchina, nella sua prima apparizione ancora fanciullesca, piuttosto di un tonno baciato per la prima volta, di un asino in mare avvolto dalla nuvola di pesci, quando non viene esaltata una innocenza (convincente il piccolo Federico Ielapi), ludica, sobria, luminosa, ma anche un po’ troppo semplice.
Certo non era questo l’intento di Garrone. Ma un film così (che forse sarebbe stato più nelle corde oggi di una Alice Rohrwacher) alla fine non riesce a prendere un tratto distintivo forte, non incanta se non a brevi tratti, appassiona poco (anche nel Geppetto di Benigni, forse per via del suo peccato artistico precedente proprio a riguardo di Pinocchio). Insomma meglio il Garrone di “Dogman”, “Gomorra”, “Primo amore” e “L’imbalsamatore”: è lì che il suo cinema sa toccare il cuore. Voto: 5.


SCIAMMA INFIAMMA LO SCHERMO - La pittrice Marianne arriva su un’isola bretone per fare un ritratto a Héloïse. Ma tra le due donne nasce una reciproca attrazione. Céline Sciamma abbandona l’impeto caotico della gioventù d’oggi di “Diamante nero” e i confini della sessualità di “Tomboy” per tuffarsi in una storia del XVIII secolo, che diventa un saggio protofemminista (i personaggi sono quasi totalmente donne) sulla “libertà” femminile, costretta spesso a restare all’ombra del potere maschile. Un film elegante e raffinato, sull’atto del guardare e di essere guardati anche qui togliendo ogni dominante maschile (e nel caso anche eterosessuale), che potrebbe sembrare a tratti noiosamente inchiodato a un trattenuto cedimento al desiderio e all’erotismo (il primo bacio arriva dopo un’ora), ma capace di scardinare in modo esemplare, vista l’epoca, un immaginario obbligato. Con un inizio che rimanda a “Lezioni di piano” e due scene molto belle: il canto notturno attorno al falò con il primo vero segnale di attrazione e la scena finale con l’insistito primo piano su Héloïse, che ricorda quello di “Vive l’amour”.  Premiato a Cannes e agli Efa per la sceneggiatura, ma il suo punto di forza è semmai la regia. Voto: 7.
 
IL TERZO OMIDICIO: IL RASHOMON DI KORE-EDA
- "Il terzo omicidio", che esce con abbondante ritardo rispetto al passaggio veneziano di due anni fa, ragiona sul ruolo e il senso della giustizia e l’impossibilità di una verità oggettiva. In uno sfaccettato racconto alla Rashomon, un avvocato assume la difesa di un uomo accusato di omicidio e furto. Kore-eda qui rinuncia al suo gusto ironico, ma non ai temi cari del suo cinema (la famiglia, il rapporto padri-figli), tornando agli assetti più severi come in “Nessuno sa”. Un film non semplice nel suo meccanismo e nella soluzione del caso, non così empatico come altre volte, ma capace ancora di catturare e farsi apprezzare. Voto: 6,5.

  Ultimo aggiornamento: 09:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA