Veneto, fiumi di droga dalla Turchia: 22 anni di carcere alla “mente”

Venerdì 3 Maggio 2024 di Michele Fullin
Operazione Wolf

VENEZIA - Sui panetti di eroina erano soliti apporre l’effigie di un predatore, un lupo o in altre occasioni un’aquila, in modo da rendere riconoscibile il gruppo di importatori anche in caso di “smarrimento” dei carichi che dalla Turchia arrivavano verso il Nordest. Un po’ come si usava fare con i tronchi d’albero che negli sconfinati Stati Uniti si affidavano marchiati ai grandi fiumi per arrivare in segheria con il nominativo preciso di chi li aveva spediti.
Proprio di questi lingotti la Squadra mobile di Venezia aveva rinvenuto nel maggio 2018 una quantità da record in una valigia di un quarantenne romeno all’interno di un hotel di Marghera: ben 42 chili.

Per via del lupo impresso sui panetti, l’operazione che avrebbe smantellato l’organizzazione, fu denominata “Wolf”.

IL PESCE GROSSO
Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e i protagonisti, accusati di traffico internazionale di stupefacenti sono stati tutti processati con rito abbreviato o ricorrendo al patteggiamento con pene tra sei e nove anni di carcere. L’ultimo è stato quello che per la Procura di Venezia era colui che teneva i rapporti ad alto livello con chi trattava la droga a tonnellate: il cinquantunenne turco Adibin Baran, residente a Varese, il quale fino all’ultimo si è dichiarato estraneo alla vicenda e innocente.
Il Tribunale di Venezia ha accolto in pieno la richiesta del pubblico ministero Laura Cameli a conclusione del processo: ventidue anni di reclusione per un maxi traffico di eroina proveniente dalla Turchia. Nessuno sconto di pena, nessuna attenuante, neanche minima da parte del collegio presieduto da Stefano Manduzio. Per la Procura di Venezia, Baran ha avuto un ruolo centrale nella contestata associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, e per dimostrarlo ha elencato tutti gli elementi emersi a suo carico nel corso del processo, comprese intercettazioni e alcune testimonianze: è emerso che era lui a tenere i contatti con i livelli più alti dell’organizzazione e a ordinare la droga in occasione dei frequenti viaggi all’estero per lavoro.
La difesa si era battuta nell’ultima giornata di discussione, in un’arringa durata un paio di ore, per cercare di smontare il quadro accusatorio e dimostrare che Baran non ha nulla a che fare con la droga e che, nei 18 anni trascorsi in Italia, si è sempre comportato correttamente, nel rispetto della legge, lavorando onestamente come dipendente di varie società o come piccolo imprenditore, tanto da arrivare al processo senza alcun precedente penale. Baran è detenuto nel carcere milanese di Opera.

L’INCHIESTA
L’indagine si sviluppò, come detto, a seguito del primo ritrovamento record di droga a Marghera. Ad accorgersi che qualcosa non andava era stata una addetta alla pulizia delle camere, attirata dal forte odore che arrivava dalla valigia. E aveva dato l’allarme. Da lì, la Mobile aveva ricostruito la filiera con un lavoro certosino fatto di intercettazioni telefoniche, appostamenti, pedinamenti. Si era così capito che la droga partiva dalla Turchia e seguiva diverse rotte, sempre tramite camion, potevano arrivare in Italia via strada attraversando la frontiera per poi scendere nel Veneziano attraverso il Veneto Orientale, o caricati sul traghetto dalla Grecia, approdando poi a Venezia.
L’eroina veniva quindi nascosta negli estintori dei mezzi: i poliziotti in più di un’occasione ne hanno trovate partite da diversi chili, che all’ingrosso fruttavano 25mila euro al chilo. 
In questi tre anni di indagini, alla fine, gli investigatori sono riusciti a individuare 6 carichi di eroina imputabili all’organizzazione turco-irachena Il quartier generale veneto della banda, come poi ricostruito dagli uomini della Mobile diretta da Giorgio Di Munno, era un Kebab di Este dove la cellula padovana, nascondeva la droga e organizzava i trasporti e gli incontri con i clienti.
 

Ultimo aggiornamento: 16:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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